Gilioli con un grande post:
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La discussione, a un certo punto, arriva su questo. Quasi sempre.
A un certo punto qualcuno ti dice: «Ma di’ la verità, tu saresti contento se tuo figlio fosse gay?».
E lo dice con l’aria di quello che ha tirato fuori l’arma-fine-di-mondo, l’argomentazione a cui non puoi replicare se non arrampicandoti sul muro dell’ipocrisia.
Pensano di vincere facile, con questa argomentazione.
Perché se tuo figlio è gay, certo, dovrà affrontare mille difficoltà in più. Alle medie – le orrende medie – i compagni gli diranno frocio, checca, finocchio. E se anche non lo faranno, lo faranno comunque sentire diverso e solo, in un’età già terribile di suo. Probabilmente la sera piangerà nel letto senza farsi vedere. Magari starà male per anni al pensiero di doverlo dire. E così via, a lungo nel dolore se non nella paura, prima di trovare il coraggio adulto di essere libero e felice.
Quale genitore vorrebbe che suo figlio vivesse un’adolescenza così? E allora dai, di’ la verità: saresti contento se tuo figlio fosse gay?
Eppure, forse, a chi ti fa questa domanda basterebbe rispondere con un’altra domanda, chiedendogli perché ancor oggi l’omosessualità condanna – spesso – a un’adolescenza infelice.
E la risposta sta proprio in una società ancora incapace di pensare – e quindi di educare – in termini di accettazione dell’omosessualità come non vergogna. Come variabile tra le tante, né migliore né peggiore. Il ragazzino omosessuale cioé che è sì diverso – diverso dalla maggioranza, s’intende – ma solo come uno che ha i capelli rossi mentre gli altri no.
In questo caso, non ci sarebbe nessuna presa in giro, in classe. Nessuna conscia o inconscia discriminazione. Quindi nessuna sofferenza del ragazzino. Quindi, nessuna angoscia dei genitori.
In altre parole, sono proprio quelli che ti chiedono «Ma di’ la verità, tu saresti contento se tuo figlio fosse gay?» che con queste parole testimoniano e perpetuano una società in cui un padre deve per forza rispondere «no». Perché anche solo chiedendolo, testimoniano e perpetuano un approccio di vergogna per chi è gay. Testimoniano e perpetuano una società discriminante. E quindi creano le condizioni per perpetuare la sofferenza dei figli gay e dei loro genitori.
Quando ero ragazzino io – alle elementari che ho fatto a Bergamo alta, tra figli di contadini – la vergogna era avere gli occhiali. Oggi probabilmente la cosa fa ridere, invece vi giuro che era così. Il bambino con gli occhiali veniva preso in giro. E il gioco dei bulli era farglieli cadere dalle orecchie, naturalmente.
Poi le cose sono cambiate, a poco a poco, e sono stati accettati come «normali» non solo i quattrocchi ma anche i bambini adottati («Ma tu lo sai chi sono i tuoi veri genitori?), i figli dei divorziati (wow!) fino a quelli degli immigrati («sì, i «negri», che quando ero piccolo io si vedevano solo nei film americani che davano sul primo canale il lunedì sera).
Eppure ancora adesso c’è ancora qualcuno che ti chiede «Ma di’ la verità, tu saresti contento se tuo figlio fosse gay?».
E non si rende conto che solo ponendo quella domanda dichiara di appartenere allo stesso passato in cui si discriminavano i bambini con gli occhiali.
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